De Raffaele si racconta: "All'inizio non c'era identità di squadra"

06.07.2019 15:54 di  Davide Marchiol  Twitter:    vedi letture
De Raffaele si racconta: "All'inizio non c'era identità di squadra"

Ai microfoni del metropolitano.it coach De Raffaele ha rilasciato una lunga intervista in cui ha ripercorso la stagione che ha portato al quarto Scudetto per Venezia. Nella prima parte il tecnico ci spiega come mancasse un'identità alla squadra: “Credo siano stati 10 mesi di tantissimo lavoro, psicologico e non, perché la squadra è arrivata questa estate con la percezione di essere competitiva e che le cose sarebbero arrivate senza darci dentro al massimo, questo era quello che percepivo parlando anche con i più esperti. Credo che all’inizio della stagione, che è stato ottimo sia in campionato che in coppa, la percezione era che ciascuno cercasse la propria dimensione tecnico mentale che una dimensione di squadra. Il mio lavoro, insieme al mio staff è stato profondo, perché a livello mentale dovevamo dare un’identità e comunque l’esserci nel gruppo avrebbe dato prima o poi la differenza, squadra lunga, rotazioni, una cosa è dire “io sono a disposizione della squadra, star fuori non è un problema” è bello sentirlo, ma la realtà è che qualcuno lo dice falsamente, altri invece lo dicono sul serio. Credo che l’esempio migliore sia Vidmar, che veramente è stata sempre all’interno di un gruppo, o lo stesso Bruno, che sapevano di poter essere sempre importanti. Non lo si fa con cattiveria, sta nel sano egoismo del giocatore, ma cosa succede? Che poi psicologicamente va contro la squadra, perché il giocatore cerca lo spazio personale per il gruppo, ma prima un po’ per sè stesso e questo non fa bene alla squadra. Il lavoro psicologico dunque è stato prima di tutto portare alcuni giocatori in una mentalità da grande squadra, mi riferisco prima di tutto ai problemi che può aver avuto Mazzola, poi l’accettazione che il percorso era molto più importante della singola partita e non è stato facile, perché non tutti si erano veramente messi nella convinzione mentale che l’importante era arrivare alla fine di questo percorso. Chiaro che l’esempio più eclatante alla fine è stato Daye, ma in realtà è successo a tanti giocatori. Quando l’accettazione c’è stata, mi riferisco alle ultime giornate e i play-off ho avuto proprio la sensazione che ci fosse la gioia di vedere giocare il compagno e anzi, se un compagno giocava bene e io volevo fare un cambio talvolta mi sono sentito dire “no ma lascialo in campo”, questo è stato il risultato del lavoro profondo di un club, che io identifico in Casarin, perché è sempre stato con noi, un lavoro profondo su tutte le cose che hanno riguardato questo lavoro mentale, perché ogni giocatore ha la propria psicologia, ha le proprie paranoie e ognuno vuole essere soddisfatto, ricaricato e tutto questo andava messo in un obiettivo finale”.